Giugno 9, 2022

Unioni civili e convivenze di fatto. Quali tutele previdenziali?

Di Antonio Licchetta – Responsabile Area normativa Patronato Epasa-Itaco

Con l’introduzione nell’ordinamento delle “Unioni civili” tra persone dello stesso sesso e delle “convivenze di fatto”, il legislatore del 2016 ha provveduto a limitare la distanza esistente tra il nostro e gli altri Paesi occidentali in tema di diritti civili.

Tale intervento normativo (posto in essere con la Legge 20 maggio 2016, n. 76), apporta rilevanti modifiche al nostro diritto di famiglia e produce importanti riflessi sui diritti previdenziali e sugli obblighi assicurativi nei confronti dell’INPS, con particolare riferimento, ad esempio, alla iscrivibilità degli interessati presso le Gestioni speciali di artigiani e commercianti in qualità di collaboratori familiari.

Ma cosa si deve intendere per “unione civile”, e quale la differenza, anche in termini di tutele sociali, con la “convivenza di fatto”?

Facciamo una breve disamina del quadro vigente, con l’auspicio che un intervento legislativo o giurisprudenziale possa colmare talune carenze ancora esistenti, derivanti dal riconoscimento giuridico ben più ampio e penetrante riservato agli uniti civilmente rispetto ai conviventi di fatto, con riflessi su alcuni diritti di sicurezza sociale di cui si dirà in seguito.

Le unioni civili

Nel primo e secondo comma dell’unico articolo di cui si compone la Legge n. 76/2016, è stabilito che “l’unione civile tra persone dello stesso sesso, quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione” è costituita da “due persone maggiorenni dello stesso sesso (…) mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni”.

Per effetto del disposto normativo sopra richiamato, pertanto, “con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”.

Completano il quadro talune disposizioni che stabiliscono le cause impeditive per la costituzione dell’unione civile e la conseguente nullità della stessa, la sua impugnabilità e scioglimento, l’indirizzo patrimoniale degli uniti civilmente.

Alla luce di quanto sopra, giuridicamente l’unione civile si configurerebbe come una formazione sociale pressoché equivalente a quella unita in matrimonio, di cui al Libro I, Titolo VI, del codice civile.

Tuttavia, ancorché il legislatore abbia stabilito che “(…) le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”, da questo ne differisce per il mancatocompleto rinvio a tutte le norme contenute nel codice civile, ma solo adeterminati articoli espressamente richiamati nella legge in commento.

Ciò comporta la non esatta (ancorché sostanziale) equiparazione giuridica tra matrimonio e unione civile, con gli importanti limiti cui successivamente si farà cenno.

Le convivenze di fatto

A differenza dell’unione civile, la convivenza di fatto può essere costituita sia da persone dello stesso sesso che da persone di sesso diverso.

In particolare, si intendono «conviventi di fatto» “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale emateriale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”.

La stabile convivenza, quale elemento determinante ai fini della configurabilità dell’istituto, viene accertata attraverso le dichiarazioni anagrafiche che le parti interessate effettuano nel Comune di residenza, senza che ciò comporti alcuna modifica dello stato civile delle parti interessate.

I rapporti patrimoniali dei conviventi possono essere regolati attraverso un “contratto di convivenza”,

redatto in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato.

Tale contratto può contenere: l’indicazione della residenza; le modalità di contribuzione alle necessità

della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; il regime patrimoniale della comunione dei beni.

In merito alla reciproca assistenza in caso di malattia, la legge prevede che “i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari”.

Inoltre, ciascun convivente può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati, “in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute, e in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie”.

Altre norme di miglior favore, nei confronti del convivente superstite, disciplinano il diritto di abitazione (per un periodo limitato) nella casa di proprietà del de cuius o nella casa di cui il medesimo ne fosse conduttore.

Alla luce di quanto sopra, appare evidente come il legislatore abbia inteso riservare un riconoscimento giuridico, nei confronti degli uniti civilmente, ben più ampio e penetrante rispetto ai conviventi di fatto, per i quali ultimi sono auspicabili ulteriori interventi diretti a rafforzare le pure apprezzabili misure attualmente vigenti.

La disciplina previdenziale applicabile

Relativamente al diritto alle prestazioni pensionistiche e previdenziali, il componente dell’unione civile è equiparato al coniuge ai fini del diritto, ad esempio, alla pensione ai superstiti (indiretta o di reversibilità), integrazione al trattamento minimo, maggiorazione sociale. Analoga equiparazione è riconosciuta per la successione legittima e iure proprio.

Tuttavia, come anticipato in precedenza, il rimando operato dal legislatore solo a determinati articoli del codice civile ai fini della equiparazione del temine «coniuge» ed equivalenti con le parti dell’unione civile, comporta rilevanti limiti, il primo dei quali relativo alle norme applicabili agli affini, il cui art. 78 del codice civile (ai sensi del quale “L’affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro coniuge”) non viene menzionato nella Legge n. 76/2016.

Per effetto di quanto sopra, ad esempio, i figli legittimi ed equiparati (figli naturali, adottivi e figli del coniuge nati da precedenti matrimoni) degli uniti civilmente, avranno diritto ai trattamenti di cui sopra solo se figli del de cuius, secondo le normali regole di diritto, e non se figli del superstite perché non avranno acquisito, con il de cuius, alcun vincolo giuridicamente riconoscibile, anche se inseriti nell’ambito della famiglia costituita attraverso l’unione civile. Ciò anche per effetto della non applicabilità, per le unioni civili, della Legge n. 184/1983, che disciplina gli affidamenti e le adozioni.

In altri termini, i figli del superstite, poiché non potranno acquisire, con il de cuius, alcun vincolo giuridicamente riconosciuto, non potranno beneficiare delle prestazioni sopra citate, anche se inseriti

nell’ambito della famiglia costituita attraverso l’unione civile.

Resta inteso che le prestazioni di cui sopra, fatta eccezione per l’Assegno Unico Universale per figli minori, non potranno essere riconosciute ai conviventi di fatto, per i quali continuano a trovare applicazione le norme di diritto comune.

In merito, invece, ai permessi per assistenza al portatore di handicap grave, e in particolare ai permessi ex art. 33, co. 3, della L. n. 104/1992 (3 giorni di permesso mensili retribuiti), e al congedo straordinario ex art. 42, co. 5, D.Lgs. n. 151/2001 (congedo non superiore a 2 anni), si registra la medesima diversità di trattamento: possono fruire di entrambe le misure gli uniti civilmente, solo dei permessi ex Legge n. 104/1992 i conviventi di fatto.

In merito al tema, si segnala tuttavia una duplice, apprezzabile, estensione applicativa per effetto della nostra giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 213/2016) e della normativa antidiscriminatoria di origine comunitaria.

Da un lato, infatti, l’intervento della Corte Costituzionale ha esteso il diritto ai citati permessi ex Legge n. 104/1992 anche al convivente di fatto e, dall’altro, al fine di evitare comportamenti discriminatori in contrasto con il preminente diritto dell’Unione europea nei confronti della normativa nazionale, i permessi ex Legge 104 e i congedi straordinari sono riconosciuti anche a parenti e affini dell’unito civilmente.

Possono considerarsi, questi, due incoraggianti esempi degli auspicati interventi diretti ad estendere le tutele previdenziali (e non solo) alle diverse formazioni sociali tutelate dalla nostra Costituzione.